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Big Data: efficienza e fiducia nella marca, parola di GS1 Italy

I Big data sono oggi cruciali per i rapporti di filiera fra produttori – distributori, e sono strategici per il rapporto con il consumatore. Le tecnologie abilitano alla raccolta di una vera montagna di dati: di un prodotto si  traccia la composizione, la provenienza, il viaggio, la vita sullo scaffale. Di un consumatore si può tracciare davvero tutto, non c’è bisogno di stilare l’elenco.  GS1 Italy, l’associazione che ha introdotto il codice a barre, si interroga.

Che ci facciamo con queste informazioni?

Bella domanda, se la sono posta al convegno “Big Data nel carrello”. Ma la questione è anche come gestire i Big Data e come scambiarli. Perché, come ha precisato il presidente di GS1, Alberto Frausin, “L’allineamento delle informazioni nei processi commerciali e il loro scambio secondo standard condivisi (..) sono processi significativi che le aziende devono presidiare in un’ottica crescita in efficienza e competitività”.

È chiaro, nell’ambito del Data management serve una standardizzazione. E poi, in un sistema multicanale, percepito dal consumatore senza particolare distinzioni fra fisico e virtuale, sarebbe opportuno che le informazioni riguardanti lo stesso prodotto fossero le stesse. No?

Una marca in cui credere

Se sono “big” i dati da gestire per gli operatori, anche per i consumatori non si scherza. La multicanalità ha moltiplicato in modo esponenziale la quantità di informazioni facilmente disponibili, come facili sono le occasioni di acquisto per qualunque cosa. Il consumatore, per orientarsi, cerca un riferimento in un tale mare-magnum e, a quanto pare, lo trova nella marca, quella in cui ha valutato di credere. La marca che “diventa fondamentale per la deleghe fiduciarie che richiede il consumatore”, per dirla con le parole di Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano. Anche in questo caso  la tecnologia dei Big data permette di costruire strategie di marketing personalizzate, potenzialmente un rapporto “uno a uno”.

Bello strumento, può costruirela relazione con il consumatore o distruggerla, far scattare la fiducia, o farla perdere. Avendo la tecnologia “bisogna spostare l’asse del discorso – sostiene Paolo Iabichino (nella foto), chief creative officer Olgivy e Mather – oltre a raccontare il cosa (il prodotto) e il come (le informazioni) bisogna raccontare anche il perché”. Secondo Iabichino, la marca deve rispondere a un bisogno diverso del consumatore: è il desiderio di un’opinione in cui riconoscersi, una presa di posizione da condividere. Usare la tecnologia in maniera creativa “per accogliere la risposta a un bisogno sempre più urgente, quello di abbracciare le stesse tensioni culturali che le persone stanno vivendo, offrendo esperienze di marca il cui racconto risuoni con il loro destino, e non sia ghettizzato nella logica di clusterizzazione e targetizzazione finalizzata a convincerli a comprare il prodotto”.

L’etichetta è come un media

L’etichetta, con la marca,  è la prima informazione che impatta con il cliente, è il “moderno cantastorie del prodotto”(lo dice Iabichino). L’etichetta racconta molto del prodotto, ma anche del produttore, la sua qualità, le sue istanze ambientali o di trasparenza. E potrebbe raccontare ancora di più, la richiesta di informazioni certe, come quelle dell’ etichetta, è tutta da soddisfare. Loro, i consumatori, del resto si svelano attraverso le etichette dei prodotti che scelgono, basta consultare l’Osservatorio Immagino, nato dalla collaborazione fra GS1 Italy con Nielsen, uno studio su fenomeni di consumo nuovi e inesplorati del largo consumo alimentare e della cura della persona. Dal report 2018, ecco un dato: nel 2107 il trend di vendita prodotti con un richiamo all’italianità on pack è aumentato del 4,5%, le indicazioni di tutela geografica riconosciuta DOP (denominazione origine protetta) e DOC (denominazione di origine controllata) riportate in etichetta o sulla confezione velocizzano gli incrementi di crescita sul 2016.